Gli orologi
avevano appena battuto le tre, ma faceva già buio: non c’era stata luce durante
l’intera giornata. Il freddo penetrava, mordeva, tagliava i visi. Il genio del
freddo sedeva sulla soglia delle case in cupa meditazione. La nebbia penetrava
da ogni fessura, da ogni buco di serratura, ed era tanto fitta che le case
apparivano come fantasmi. Qualcuno andava in giro con le torce accese, per
indicare la strada ai cavalli delle carrozze. La vecchia torre della chiesa
diventò invisibile, e batté tra le nuvole le ore e i quarti con rintocchi
prolungati e tremuli. Tutto era spettro, fantasma, figura stregata: gli spettri
si congiungevano e si moltiplicavano, per minacciare definitivamente la vigilia
di Natale.
La vigilia di
Natale diventò un paesaggio di negozi, di cucine, di fuoco, di riso, di
fantasia. I negozi da pollivendolo erano aperti a metà, mentre quelli dei
fruttivendoli raggiavano in tutto il loro splendore. Gli occhi dei passanti
penetravano nelle cucine natalizie, dove si estendeva una luminosa collezione
di coperchi lucenti, padelle pulitissime, lucidi scaldavivande, pentole
splendenti.
Nel caminetto
il fuoco prese vigore, e bruciava alto e chiaro. Era il genio della cucina. Scoppiettava
scintillando; a volte ruggiva come se volesse fare musica anche lui; a volte
fiammeggiava, ammiccava, scherzava sui ciuffi di agrifoglio; a volte il suo
ardore si faceva turbolento, passava ogni limite, e con un sonoro fracasso
buttava nella stanza una pioggia di innocue scintille, e nella sua esultanza
saltava e ballava come un pazzo su per il largo, vecchio caminetto. Una calda
luce rossastra imporporava la sala; e se il cuoco attizzava il fuoco il cuore
di tutti si inteneriva.
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