Dobbiamo farcene una ragione ogni qualvolta
ci accostiamo ad un nuovo lavoro di Erri De Luca; è dai tempi di “Montedidio”
che l’autore partenopeo non scrive più una storia degna di essere considerata
romanzo. Negli ultimi anni i suoi lavori hanno assunto o le sembianze di saggi:
le due conversazioni con padre Gennaro Matino “Sottosopra” e “Mestieri all’aria
aperta”; i testi di derivazione biblica (Antico Testamento): “Le sante dello
scandalo”, “In nome della madre” e “E disse”; l’ultima conversazione epistolare
con Paolo Sassone-Corsi “Ti sembra il caso?” oppure dei racconti brevi che
personalmente considero alla stregua delle novelle come “Il peso della
farfalla”, “Il torto del soldato”, “I pesci non chiudono gli occhi” e “La
doppia vita dei numeri primi”. D’accordo che lo stesso Erri ha più volte
ribadito che i suoi libri volutamente non supereranno mai le 100/120 pagine e
d’accordo che si possono scrivere degli ottimi romanzi strutturati in tale
lunghezza ma, come nel caso dei testi appena citati, ci troviamo di fronte più
che a romanzi a una serie di raccolte di racconti. Intendiamoci qui non è in
discussione il valore degli scritti tutti di ottima levatura quanto di una
“urgenza” a leggere un vero e proprio romanzo di De Luca.
Capita così che anche questo ultimo lavoro
“Storia di Irene” e una raccolta di tre racconti: il principale quello che dà
il titolo all’intera raccolta, “Il cielo in una stalla” già conosciuto e letto
ne “Il torto del soldato” e “Una cosa molto stupida” a chiudere. Tralasciando i
due racconti brevi e concentrando l’attenzione su quello che dà il titolo al
libro, anche in questo caso si può affermare e confermare la bontà della
scrittura e delle storie raccontate da Erri così come non si può fare a meno di
pensare ad una eventuale elaborazione più corposa di quanto l’autore propone.
Infatti si può elaborare una scrittura più ampia anziché scrivere frasi brevi
anche se ispirate che però somigliano molto a degli aforismi ( mi viene in
mente e il paragone non deve sembrare irriverente Paulo Coelho) e alla fine
sembra che si stia leggendo sempre la stessa frase. Viene da dire che la
lettura di questo libro ipnotizza il lettore.
Per “Storia di Irene” De Luca parte da una
vecchia storiella su Freud e Jung: il mare è il simbolo del ventre materno
oppure è vero il contrario? Su questo interrogativo l’autore innesta la storia
di una ragazzina di 14 anni che ama, alla lettera, i delfini. Irene divide la
sua vita di giorno con gli uomini sulla terraferma da cui è emarginata e di
notte in mare con i delfini: accolta, educata, resa madre, accompagnata nella
maternità, dalla più solidale delle comunità. Una ragazzina orfana in terra che
ha dovuto cercarsi al largo, dentro il mare, gli affetti e la famiglia. Mi pare
di leggere in questa trama la dualità tra la convivenza degli umani fatta in
questo nostro tempo di violenza, indifferenza, ingiustizia, emarginazione e la
solidarietà, la buona socialità dei mammiferi (in questo caso i delfini, ma già
in precedenti racconti De Luca aveva ben espresso questa dualità – cfr “Il peso
della farfalla”, “I pesci non chiudono gli occhi”). E’ anche vero che con un
po’ di impegno chi conosce di persona lo scrittore può scavare nel proprio
vissuto e scoprire che le cose raccontate fanno parte della propria esistenza.
Senza voler esagerare nel complesso, pur
con le dovute puntualizzazioni testé fatte, ancora una volta siamo a
condividere un testo molto bello sul piano poetico definito dalla critica “una
prosa d’arte” dove le immagini e le trovate belle sono tante.
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