Chissà quanti bambini, nei secoli, hanno
giocato nel quadriportico di Sant’Ambrogio, a Milano. Chissà quali giochi hanno
visto giocare quegli archi di cotto, prima che la sola idea di bambini che
giocano in un monumento diventasse scandalosa. Pepi Merisio ha fatto in tempo a
vedere gli ultimi, e a fotografarli mentre cercano di far gol fra le colonne.
“Sono un uomo fortunato” ammette, “ho visto la civiltà cambiare, dall’antico al
moderno”. E il gioco, come ci spiegò Huizinga, è l’unica vera costante della civiltà:
è la civiltà stessa.
“Non era difficile collezionare immagini di
gioco. Si giocava ovunque. Giocavano tutti, adulti e bambini, sotto gli occhi
di tutti. Era un mondo che sapeva ancora giocare”. E il tavolo da gioco erano
le piazze austere e cariche di storia, le strade non ancora involgarite dalla
benzina, i luoghi del lavoro ancora indulgenti.
Merisio racconta la storia, e la storia
avanza prepotente nelle sue immagini, il gioco di città non è più il gioco di
campagna, le carraie fra i campi si restringono nei cortili condominiali, poi
il gioco si rifugia negli spazi istituzionali, consentiti, tollerati, i
circoli, gli oratori. La civiltà ha messo il guinzaglio al gioco, cioè a se
stessa.
Scopro
tardi pepi Merisio e la sua fotografia, una fotografia perlopiù in bianco e
nero che ci parla del passato, delle origini di ciò che siamo e mi appassiona
vedere immagini ormai sopite sotto la patina della modernità. Guardo queste
foto di bambini che giocano e in tutte mi riconosco bambino “in mezzo alla
strada”, quella strada polverosa ma pulsante vita che ci ha fatto diventare
uomini grandi.
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