Il primo incontro del Rifrullo Letterario
per il 2014 è stato un incontro piuttosto selettivo; poche persone e un unico
autore: Pier Paolo Pasolini. Si è parlato a lungo di “Petrolio”.
Al di là della storia conosciuta di questo
testo, un romanzo postumo e assemblato non secondo il volere dell’autore ma
come il curatore dell’opera ha creduto meglio,
è principalmente la storia dell’ENI di Enrico Mattei e di tutto ciò che
è girato attorno al colosso energetico italiano fino agli anni settanta; ma non
è solo questo, è tant’altro e dalla lettura di alcune pagine, abbiamo compreso
di come Pasolini scriveva di se stesso, specialmente nella dualità del
personaggio principale. Ne viene fuori una figura tormentata con tutti i
tormenti che lo scrittore stesso si trovò a vivere ad un certo punto della sua
esistenza, in alcuni passaggi sembra di essere una autoanalisi attraverso lo
scritto. Sappiamo benissimo però che “Petrolio” è un testo di difficile
interpretazione, c’è tutto il Pasolini polemista assaltatore che cerca seppur
in modo ermetico di descrivere i “guasti” della società e l’inettitudine
volontaria della nostra classe politica ad affrontare le problematiche che
zavorrano il paese.
“Scritti Corsari” l’altro testo analizzato
in questo incontro è la conferma a quanto detto su “Petrolio”.
Ricordiamo che il testo in questione è la
raccolta di articoli pubblicati principalmente sul Corriere della Sera, ma non
solo, in cui Pasolini con lucidità estrema commentava gli accadimenti del
paese. E in questo caso mi pare azzeccata la definizione che si è voluta dare
di un intellettuale che abbracciava la “rivoluzione intraborghese”. Ma “Scritti
Corsari” contiene quello che a mio modesto parere è la “condanna a morte” di
Pier Paolo Pasolini: l’articolo pubblicato dal Corriere il 14 novembre 1974 dal
titolo “Cos’è questo golpe? Io so”. Una agghiacciante analisi della nostra
classe politica che per la bellezza anche poetica del testo pubblico
integralmente.
Cos'è questo golpe? Io so
di Pier Paolo Pasolini
Io
so.
Io so
i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che
in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione
del potere).
Io so
i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so
i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del
1974.
Io so
i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti
ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime
stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più
recenti.
Io so
i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione:
una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista
(Brescia e Bologna 1974).
Io so
i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine
dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente
fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre
con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità
antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so
i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e
assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di
riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani
neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione
anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per
sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).
Io so
i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi
comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto
operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a
dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so
i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi
che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani
o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so
tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di
cui si sono resi colpevoli.
Io
so.
Ma
non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so
perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che
succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che
non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i
pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che
ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il
mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere.
Credo
che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato,
che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e
persone reali siano inesatti.
Credo
inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in
quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a
proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così
difficile.
Tale
verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità
di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di
finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità
urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della
Sera", del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici
hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora
il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove
e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi
nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non
è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione,
niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un
intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli
non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del
potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi
- proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed
indizi.
Mi si
potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di
storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o
intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto
ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione
io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad
entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale
coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio
intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili
in Italia.
All'intellettuale
- profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si
deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di
dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato
viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si
aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi
e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma
non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia
questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi
riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo
momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito
comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni
democratiche.
Il
Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese
onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un
Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese
consumistico.
In
questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso
autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base
e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito
comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un'isola.
Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai
col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti
diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono
incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È
possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso",
realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo:
"compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra
due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.
Ma proprio
tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne
costituisce anche il momento relativamente negativo.
La
divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella
degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può
essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io
l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese,
l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre
potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non
comportarsi anch'essi come uomini di potere.
Nel
caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda,
anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se
l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico -
ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche
gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno -
prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici,
dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non
li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un
intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente,
neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non
funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data
l'oggettiva situazione di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a
quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo
codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare
momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia
contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste
categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e
come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene,
proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo
di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la
mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
E io
faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali"
della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente
attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono
pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che
questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia
venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento -
deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che
evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno
indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo
"diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la
democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o
poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere:
come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel
caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo
di Stato.
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