Perché
il punto di partenza del giovane Platone è l’agnizione dei limiti della
“democrazia realizzata”, del suo carattere, anzi, illusorio, risolvendosi di
fatto l’antico regime che così chiamiamo nella dilatazione smisurata e
nell’estensione a sempre nuovi strati dello stesso vizio che connota il sistema
oligarchico: l’avidità di possesso dei beni. Mentre la virtù fondamentale del
buongoverno, teorizzata in seguito nella Repubblica, è l’equilibrio nella
redistribuzione della ricchezza, gestibile solo dallo stato: l’unico possibile
rimedio ai fallimenti dei vari modelli, anzitutto quello “democratico”,
sperimentati in quel primo laboratorio della politica che fu la polis ateniese
del V secolo non può che essere, scriverà Platone, <<una legge che
impedisca di disporre dei propri beni come ognuno crede>>. Ma l’esempio
dell’uomo oligarchico, del plutocrate “che deve il potere all’ingente
patrimonio”, a innescare la pulsione dei non possidenti verso la smania di
ricchezza che genera il “caos democratico”. Perché di fatto l’unico diritto che
la democrazia attribuisce al demos, il “popolo”, è quello di “diventare più
ricco possibile”. Perché, concluso l’esperimento di potere personale, chiamato
democrazia demagogicamente esercitato da Pericle, appariva necessario
<<aprire la mente a nuovi possibili sviluppi>>.
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