Leggo
sul supplemento domenicale del giornale di Confindustria le seguenti
affermazioni e contemporaneamente commento a voce alta.
“(…) esorta noi giovani (ho trent’anni) a sporcarci le mani e a
darci da fare per migliorare la situazione”.
Credo
che ciò sia giusto e auspicabile. Purtroppo vedo intorno a me un’intera
generazione (e forse anche due) che a parole mostrano disponibilità al “voler
fare”, ma che in realtà cercano e attraverso mille espedienti vivono una strada
fatta di benessere fittizio.
“(…) abbiamo bisogno di una nuova generazione per poter andare oltre
l’attuale status quo. Persone più giovani, più motivate, più entusiaste, che
possano portare nuove idee e nuova linfa. Non avremo mai un Paese più
efficiente e più dinamico se si continua a tagliare indiscriminatamente ogni
risorsa ed a mandare in pensione ottimi professionisti, senza che questi
vengano sostituiti da giovani altrettanto validi”.
Posto
che il problema dei giovani come si accennava poc’anzi è quello di
reindirizzarli su una strada fatta di sacrificio e duro lavoro per raggiungere
la meta, delle due l’una: o si immette nel mondo del lavoro nuova forza
lavoratrice sostituendo chi ha già un’età avanzata, oppure necessariamente si
devono mantenere gli “ottimi professionisti” in una economia cannibale. C’è poi
la terza via che nessuno, tranne pochi illuminati vogliono percorrere, ovvero:
immettere nel mondo del lavoro giovani da affiancare per un periodo di tempo
(due anni?) a chi ha esperienza da vendere in un rapporto 1: 1; giovani in
entrata che devono essere tutelati con un primo stipendio (e non come accade
oggi con gli stage – ho potuto constatare di persona come questi ragazzi
lavorano duramente, mi viene da dire sfruttati, senza percepire un centesimo e
alla fine dello stage mandati a casa con un calcio in culo e intanto i titolari
delle attività si ingrassano e vanno poi in TV a dire che c’è la crisi) e i
vecchi lavoratori che a 53, massimo 55 anni, dopo aver insegnato il lavoro ai
giovani, tassativamente devono andare in pensione.
Lo
so, gli ipocriti a cominciare dai politici per finire ai datori di lavoro,
diranno che quella appena descritta è una visione utopistica del mondo del
lavoro e che non ci sono risorse economiche per far questo. Falso! Le
pensioni? Bene i fondi li ricaviamo tagliando le pensioni d’oro (non è
possibile che nel nostro Paese ci sia chi guadagna decine di migliaia di euro
al mese di pensione e chi vive con poche centinaia di euro), altri fondi li
ricaviamo dalle spese militari (spese assurde che non servono a niente a
cominciare dalle missioni militari. E poi se si fanno le missioni non capisco
perché un militare deve guadagnare più dello stipendio che gli si riconosce. Se
il militare ha scelto di fare quel mestiere che lo faccia in caserma oppure in missione
conscio di ciò che il suo mestiere richiede), altre risorse si possono
recuperare dai capitali finanziari che galleggiano fra banche, alta finanza,
borsa, ecc. In questo modo ci può essere un recupero di risorse che può dare
slancio non solo all’economia reale ma al mondo del lavoro tutto.
“I ricavi e i margini si sono ridotti, le banche non aiutano, e noi,
come tutti, siamo costretti a tagliare i costi e a non assumere quei giovani ai
quali dovremmo consegnare un mestiere e tramandare l’arte dei saperi”.
Altra
affermazione che a prima vista può sembrare giusta ma che in realtà cela quella
che è la vera ingiustizia e la grande disparità di oggi nel nostro Paese. Ora
ammesso e confermato che attraversiamo una grande crisi economica, la domanda
da porre agli imprenditori (tutti) quale deve essere il loro margine di ricavo
dalla propria attività? E come deve essere ottenuto questo ricavo? Intanto
bisogna far capire a questi signori che i guadagni ottenuti negli anni ottanta
e novanta non sono più possibili e poi che devono modellare il loro “modus
vivendi” alle condizioni attuali. Un imprenditore che si lamenta dei margini di
guadagno ridotti e poi vive nel lusso sfrenato (se qualcuno vuol scommettere
potrei fare i nomi di una intera classe imprenditrice del luogo in cui vivo) è
una persona che deve essere controllata giorno per giorno dallo Stato (e non me
ne sbatte un cazzo che si definisca ciò “stato di polizia”).
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