venerdì 13 dicembre 2013

I love radio rock



Merito di Mediasetpremium, ho rivisto con piacere e con più attenzione un film uscito quattro anni fa “I love radio rock” e da subito dico che la seconda visione è stata molto più proficua e interessante della prima. Forse che vedere i films al cinema dove spesso si è disturbati da ragazzini maleducati e da adulti insofferenti anziché nell’assoluta tranquillità di casa, penalizza l’attenzione alla visione? Può darsi ma non ce ne curiamo più di tanto e racconto di cosa mi ha colpito di questo film.

Innanzitutto l’aria che si respirava a metà degli anni settanta in Inghilterra, patria non solo dell’avanguardia musicale dell’epoca ma di tutto un sistema di vita (compreso lo scontro generazionale tra padri e figli) che era l’avanguardia assoluta nel mondo (ad esclusione dell’America). Erano anni in cui la trasformazione socio-culturale era evidente e dal Regno Unito arrivavano forti indicazioni di passaggio dalla rigidità di costumi all’apertura incondizionata che fu poi il ’68. Erano gli anni in cui nasceva e si sviluppava la “Swinging London” una corrente di pensiero che vedeva i teenager primeggiare su tutto e in ciò aiutati dalla musica. Questo film si concentra proprio su questo filone, la musica come veicolo di rivalsa ai vecchi costumi sociali.

Racconta di una radio pirata al largo del mar del nord che a differenza della istituzionale BBC trasmetteva canzoni rock e pop ventiquattro ore al giorno. Una musica ritenuta ribelle dal potere politico e che vedeva nella gestione umana di radio rock la trasgressione per eccellenza ai vecchi e rigidi costumi del regno. In questo dualismo tra vecchio e nuovo si consuma la battaglia tra il potere conservatore impersonato da un eccellente (e in questo caso antipatico) Kenneth Branagh che interpreta un austero ministro di sua maestà dedito alla messa a bando di radio rock come di tutte le radio pirata del regno e i dj’s di radio rock capeggiati da Bill Nighy (Quentin nel film) titolare della nave da dove i dj’s trasmettono. Rigore dei “colletti bianchi” contro la libertà dei giovani e la radio a fare da catalizzatore,  raccoglimento collettivo e megafono dell’insubordinazione.


Naturalmente in un film del genere un posto di primaria importanza lo occupa la musica (e qui ce ne è tanta) e in risalto il pop britannico che ebbe il periodo di maggior splendore proprio negli anni sessanta/settanta. Il resto lo fanno gli attori, tutti magistrali e degni di nota. In prima piano mi piace soffermarmi sulle battute più taglienti del Conte di Philip Seymour Hoffman (eccelso nella sua performance), è la colonna sonora che funge da duplice protagonista. Ora descrive alla perfezione il periodo in cui è ambientato il film, traducendo i sospiri delle giovanissime fan, ora muove i fili della trama sostituendo la narrazione con brani mirati cui testi colgono nel segno e sferrano un colpo dritto al cuore.      




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