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lunedì 13 gennaio 2014

Idee contro il malaffare

Una piccola riflessione dal forte sapore rivoluzionario pervade in questi giorni il mio pensiero mentre leggo “Dalle lacrime di Sybille. Storia degli uomini che inventarono la banca” di Amedeo Feniello (Ed. Laterza).
Quella che si racconta in questo saggio è una storia accaduta realmente intorno al Quattrocentoi e ha per protagonista una nobildonna della Provenza che ad un certo punto della sua esistenza si vede spogliata di tutti i suoi averi a causa di alcune transazioni bancarie degne dei nostri giorni. Praticamente si racconta della creazione di ricchezza mediante ed esclusivamente ricchezza e che ha uno sbocco conosciuto abbastanza bene oggi, ovvero il crac finanziario. Già all’epoca dei fatti accadde che l’impiego del denaro al solo fine di moltiplicarlo a dismisura provocò un enorme disastro portando alla povertà la povera Sybille che circuita dai banchieri dell’epoca aveva messo i suoi averi nelle loro mani. A nulla valsero le rimostranze della protagonista e nemmeno le leggi dell’epoca (ma possiamo dire anche quelle odierne), che non riuscirono a risarcire almeno in parte le perdite dovute ad una dissennata politica finanziaria. Addirittura i maggiori ostacoli ad un degno risarcimento furono posti dalla magistratura stessa che attraverso ripetuti espedienti valsero a protrarre il dibattimento all’infinito senza mai arrivare ad una sentenza definitiva.

E allora secondo il mio modesto parere, ed è questa l’idea che mi gira in testa, quando non si riesce ad avere giustizia, nonostante la veridicità degli accadimenti, e anzi chi è preposto a rappresentare la legge fa di tutto per giustificare le nefandezze e alterare la verità, non rimane altro che praticare la ribellione violenta ed eliminare le male piante e le loro leggi.   

domenica 22 dicembre 2013

Povero Sud!

Leggere “Quintino Sella. Ministro delle Finanze” di Fernando Salsano (Ed. Il Mulino) porta inevitabilmente ad alcune riflessioni, fra cui le più interessanti a mio modo di vedere sono due: una riguarda la tassazione delle classi meno agevoli di questo Paese, l’altra su un’opinione piuttosto frequente ma sbagliata sul “peso economico” del Sud riguardo le finanze dell’intera nazione.
“Immaginate un Paese la cui economia non cresce mentre cresce il debito pubblico. I suoi governi sono incalzati dai creditori esteri, i giovani intraprendenti emigrano, la politica è rissosa, il giornalismo spesso stridulo, l’ordine pubblico precario. Per far passare le leggi finanziarie occorre fare ricorso a un unico “maxiemendamento” e per far quadrare il bilancio si parla di vendere beni pubblici. No, non si tratta dell’Italia di oggi, bensì di quella di 150 – 120 anni fa: per quanto una certa retorica patriottica abbia cercato di minimizzare, i primi decenni dell’unità furono chiaramente un disastro economico nel quale molte delle speranze di una rapida crescita andarono deluse”.
Si legge che per risollevare le finanze dello stato, Quintino Sella all’epoca ministro non trovò di meglio che tassare il macinato, colpendo così fortemente il tenore di vita dei meno abbienti e dei ceti rurali. “La vera tassa sul povero – è scritto in un discorso sul dazio sul macinato riportato da Salsano – sta nella sfiducia”, intendendo la sfiducia nel capitale che “si nasconde” anziché finanziare investimenti . Come dire la storia si ripete sempre alla stessa maniera.
Ancor più interessante è apprendere che il debito pubblico (per cui le tasse sui poveracci e ricordiamolo ceti rurali e meno abbienti erano categorie prevalenti al Sud) del nascente Stato unitario era dato  da “il cospicuo debito del Regno di Sardegna, contratto per le due prime guerre di indipendenza, dal debito ereditato dagli stati pre-unitari, in particolare dello stato pontificio nel 1870; per non parlare delle continue richieste di fondi da parte della politica per finanziare il completamento dell’avventura risorgimentale”.

Per definire questa situazione nei riguardi del meridione, si può usare una colorita enunciazione: cornuti e mazziati!   

sabato 21 dicembre 2013

Redistribuzione del reddito II

A proposito di “redistribuzione del reddito”, una piccola nota pubblicata su questo blog in data 18 dicembre, mi sembra giusto e opportuno riportare un piccolo passo di quanto letto in data 20 dicembre sul Corriere della Sera. A parlare è Giuseppe De Rita in riferimento ad un saggio da poco nelle librerie a firma Aldo Bonomi e dal titolo “Il capitalismo in-finito”. Ovviamente trascrivo il “passaggio” in cui De Rita riporta la “nuova” classificazione del lavoro avvenuta nel nostro Pese negli anni sessanta.


“All’inizio, negli anni 60 tutto sembrava chiaro e solidamente proiettato in avanti: stava contraendosi fortemente la componente agricola, che ancora al censimento del ’51 contava sul 54% della popolazione; aumentava e si compattava come “classe operaia” la componente “fordista” dei lavoratori dipendenti dell’industria; cresceva con passo inarrestabile la componente impiegatizia, specialmente concentrata nel lavoro pubblico e nelle attività bancarie e assicurative. Sembrava un mondo destinato a durare per decenni, anche perché esso trovava la sua corrispondenza nelle articolazioni delle forze politiche, attraverso il tipico fenomeno del collateralismo categoriale (del mondo agricolo, della classe operaia, del ceto medio impiegatizio)”. 

mercoledì 18 dicembre 2013

Redistribuzione del Reddito

Spesso nei conviviali del martedì sera con i miei amici nella solita osteria ci scontriamo (animatamente) sui fatti più disparati; e non può essere diversamente vista la matrice politica di ognuno di noi: uno della sinistra antagonista, uno della destra estrema, un democristiano paraculo, uno della sinistra di governo, un populista. Diverse volte si è parlato degli ormai famosissimi “costi della politica” e dalle nostre matrici politiche si può dedurre di come ognuno di noi la pensa. Personalmente ho sempre ritenuto che gli Enti Locali siano stati creati appositamente per tenere dentro un fittizio ciclo lavorativo milioni di italiani che non avrebbero avuto altra occasione che la disoccupazione a vita. Fine anni sessanta, tutti gli anni settanta e i primi anni ottanta, la Democrazia Cristiana con i suoi diversi governi ha pensato bene di usare la via d’uscita degli Enti Locali per prevenire eventuali sommovimenti di rivolta da parte di chi non aveva un lavoro (e devo dire per esperienza indiretta delle classi meno agiate di questo Paese). Oggi che da più parti si ventila la soppressione di province e altri enti inservibili, mi chiedo dove si collocherà tutta quella parte di “stipendiati” che inevitabilmente si troveranno senza un lavoro.

A tal uopo però è bene ricordare il dibattito parlamentare di quegli anni e lo faccio attraverso un passaggio del deputato parlamentare Sebastiano Fulci di aria liberale alla seduta della camera del 3 ottobre 1967 quando si discuteva del disegno di legge sui consigli regionali delle Regioni a statuto ordinario.

“Non è stato taciuto l’aggravio di spese che la nuova costellazione di assemblee, di consiglieri regionali, di presidenze, di assessorati, di gabinetti e di segreterie particolari comporterà per l’Erario e, in definitiva, per le tasche del contribuente e per l’economia nazionale. Se le Regioni verranno attuate, quanti nuovi mattoni saranno portati alla già enorme diga delle spese improduttive, che frena l’espandersi degli investimenti e, quindi, del benessere del nostro Paese? Al miracolo della moltiplicazione dei pani farà seguito quella della moltiplicazione dei posti… e ciò che spaventa ancor di più sono le forche caudine che la burocrazia regionale finirà con l’apprestare per i propri amministrati. Ognuno di quei nuovi presidenti, assessori, capi di gabinetto, segretari generali e particolari, direttori di sezione e di divisione, avrà infatti bisogno di un ubi consistam funzionale, cioè dovrà crearsi una competenza: e ciò, il più delle volte, significherà imprimere all’iter burocratico delle pratiche che concernono i poveri cittadini il carattere di un vero e proprio calvario. (…) L’uomo della strada, l’opinione pubblica, nella loro genuina ed istintiva saggezza, non hanno alcuna simpatia per i consigli regionali che si vorrebbero istituire, in cui scorgono fin d’ora l’origine di nuovi sperperi e dissesti, di nuovi mali e difficoltà”.

Previsione rivelatasi poi pura realtà; ma come si diceva all’inizio, io vedo la costituzione di questi Enti come una via tutta italiana alla redistribuzione del reddito.      

giovedì 12 dicembre 2013

Sud Sud Sud

Sono meridionale, amo il sud e pur vivendo da decenni a nord di questo Paese non ho dimenticato le mie origini che difendo a denti stretti. Chi mi conosce sa che spesso sono stato molto critico con il modo di essere delle genti del nord e indulgente con quelle del sud; è il mio modo di sentirmi meridionale in questa terra straniera che non sento per niente mia. Questo però non significa che in alcuni casi possa criticare il meridione per il suo approccio alla partecipazione del Paese (specialmente in questo momento), ed è il caso derivante dalla lettura dell’ultimo libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella “Se muore il Sud. Fra le tante cifre e statistiche che i due saggisti propinano nel loro testo, salta all’attenzione del lettore di come il costo della politica delle regioni meridionali è sproporzionato rispetto a quelle del settentrione. Purtroppo bisogna ammettere che la situazione è veritiera e che difficile poter giustificare le malefatte dei politici locali (“Una classe dirigente seria, davanti a numeri così, si nasconderebbe per la vergogna in uno sgabuzzino”). Detto questo e riconosciuto la pessima gestione socio-economica-politica di regioni come la Sicilia, la Calabria, la Campania, voglio però soffermarmi sull’operato del Movimento 5 Stelle che nell’ultima campagna elettorale ci aveva illusi su una “rivoluzione” possibile.


In Sicilia, ad esempio, il movimento di Grillo e Casaleggio ha trionfato nelle regionali del 2012 con la promessa che avrebbe dato battaglia per eliminare lo squilibrio esistente tra la casta e i semplici cittadini. Purtroppo ad oggi niente di tutto ciò è accaduto (come del resto a livello nazionale): i 15 parlamentari grillini presenti nell’assemblea regionale siciliana hanno potuto compiere solo un gesto simbolico, la restituzione di parte del loro compenso pari a 5.000 euro ciascuno da usare come fondo per il microcredito. Più di questo non hanno potuto e la cosa mi dispiace, allo stesso modo mi dispiace che non sono stati in grado a livello nazionale di mettere in pratica le promesse fatte in campagna elettorale. Dopo la vittoria, dai grillini e dai loro capi, mi aspettavo un sommovimento concreto e deciso per cambiare la nostra classe dirigente e le brutte abitudini di tutti noi italiani. Purtroppo così non è stato e lo dimostra proprio l’operato nelle regioni meridionali, luoghi in cui forse è più urgente una azione dura e pesante da parte di chi vuol fare piazza pulita del marciume che permea l’Italia.         

lunedì 25 novembre 2013

Erri De Luca - No Tav

Curiosi e spesso divertenti, i tanti “elzeviri” che settimanalmente appaiono sul supplemento domenicale di Confindustria, hanno un che di riflessivo e oltre a deliziarsi nella lettura, fanno scattare iraconde invettive. Ora, io non voglio calcare la mano su alcuni scritti apparsi sul “domenicale”, ma non posso esimermi dal controbattere con veemenza un “occhiello” del 6 ottobre 2013 riguardo uno dei miei amici, nonché scrittore di grande interesse pubblico: Erri De Luca.

Riporto fedelmente ciò che è scritto ne “Il Graffio”:

“Ragazzi, Erri De Luca non è un “cattivo maestro” perché vi ha detto che essere incriminati per resistenza è un grande onore per voi che protestate. Prima che ai pubblici ufficiali imparate a resistere alla melensa affabulazione che impregna i suoi libri, i suoi gesti e le sue parole. Lo sappiamo, non è facile: le sirene della banalità ammantata da profondità sono le più difficili da ignorare. Ma provateci per favore. Resistete”.

Aldilà del merito (la resistenza dei valligiani alla costruzione della TAV, con proteste più o meno civili), su cui io sono pienamente d’accordo stante alla impossibilità di portare a termine questo progetto e se leggo quella che è la storia italica sui grandi progetti, vi bastano queste parole di Ruiz tratte da “Repubblica”:

“Se il Vajont contasse ancora nella memoria nazionale, non si sarebbe consentito quel “Vajont alla rovescia” subito dai fiumi del Mugello, letteralmente risucchiati nel tunnel dell’alta velocità Bologna-Firenze. Se avesse cambiato qualcosa nella procedura delle grandi opere, non si imporrebbe a quel modo la Tav alla Val Susa. Se la sicurezza degli italiani contasse davvero qualcosa, il governo non si darebbe tanto da fare per costruire nel cuore di Trieste un terminal di gas liquido ritenuto pericoloso dall’intera comunità scientifica internazionale”.

Qualcosa in più però vorrei dire riguardo Erri cercando di stare calmo e non vituperare la mano che ha scritto quel graffio. Credo che ad Erri in letteratura si possano imputare alcuni limiti, ma definire la sua scrittura e il suo approccio con i lettori “melensa affabulazione che impregna i suoi libri, i suoi gesti e le sue parole” significa essere analfabeta, ignorante in campo letterario e sprovveduto dei meccanismi che regolano il rapporto scrittore-lettore; insomma un vero e proprio zotico incompetente. Di più, se è vero che chi ha scritto quel graffio è un analfabeta di ritorno, non vedo come possa dichiarare: “le sirene della banalità ammantata da profondità sono le più difficili da ignorare”: difficile comprendere come faccia un ignorante a capire la banalità descrittiva di De Luca.

Comunque prendiamo per buono il consiglio che il redattore ci propina e cercheremo di resistere alle “cazzate” che di tanto in tanto appaiono sul “bollettino confindustriale”.


P.S.: per chi ha voglia gustatevi i 40 minuti della conferenza stampa di De Luca sugli accadimenti della TAV.


martedì 19 novembre 2013

Destra - Sinistra

DESTRA - SINISTRA

Detto in breve. La sinistra è quella forza politica che già nei primi parlamenti moderni, già all’inizio dell’Ottocento, dopo la fine dell’avventura napoleonica, sarà la protagonista della spinta verso l’uguaglianza, verso una sempre più piena parità di condizioni giuridiche, politiche, economiche e sociali di tutti i cittadini. La destra, all’inizio, sarà una forza di freno. Un freno per difendere assetti sociali che quella spinta portava a sconvolgere. Più tardi anche per difendere quei valori di libertà che la sinistra, nella sua ricerca dell’eguaglianza, a volte tendeva a comprimere. Non sto dando giudizi di bene e di male. Nel delicato equilibrio tra eguaglianza e libertà e tra mutamento e conservazione, non sempre la spinta della sinistra fu un bene o le resistenze della destra un male: una valutazione dipende dalle circostanze storiche. Resta il fatto che i tratti culturali profondi dello scontro politico in democrazia, della destra e della sinistra, appaiono chiari sin dall’origine e si conserveranno nonostante tutte le trasformazioni che gli obbiettivi concreti dei movimenti politici di destra o di sinistra attraverseranno nella lunga storia di queste due categorie. E sono anche convinto che sino a quando resteremo nella Modernità, nell’era storica che ha fatto seguito all’Ancien Régime, fin quando sarà prevalente l’individualismo che caratterizza le società contemporanee (Alain Lauren, Storia dell’individualismo, Mulino 1994 e Pietro Costa, Cittadinanza, Laterza 2005), lo spartiacque del conflitto democratico, la distinzione che tenderà a prevalere su tutte le altre, sarà quella tra destra e sinistra. Tra i movimenti che sosterranno, in modo riformistico o rivoluzionario, una sempre più forte eguaglianza di opportunità tra tutti i cittadini e quelli che, sulla base di diverse concezioni di società desiderabile, di ideali nobili o di interessi di ceto, ad essa si opporranno.

MICHELE SALVATI