venerdì 3 gennaio 2014

Into the wireless

INTO THE WIRELESS
Sono gli errori il punto più alto dell’umano. In quell’istante sublime si ha la perturbante percezione che da qualche parte la verità esista e che allo stesso tempo ci sia sfuggita di mano. Culmine e abisso. Un accesso negato. Un risultato mancato a causa di una rottura. La paura di sbagliare, di deragliare da un binario, il fuoriorario che ci espelle dal tempo industriale. L’ansia che assale, che sale fino a diventare esaurimento, esaudimento di pazzia, la razzia dell’ossessione che è un’esplosione interiore, dove le macerie producono un fumo silenzioso e intossicante, al punto che ogni istante diventa macignante come piombo fuso nel sangue, l’anguilla rossa che sguscia tra le vene, che diventano catene infernali, quintali di tossine cerebrali che intossicano il nostro sistema nevoso, un rigore rabbrividente che squarcia il corpo e lo costringe al tremore, al rossore serale, che nulla ha a che fare con il tramonto ma con il trapianto di cuore. L’errore. Che ci consente di pensare all’amore, come al rimedio migliore contro l’impossibilità della perfezione, la guarigione dei sensi che non vogliono essere attraversati da pensieri, ma da sentieri condivisi, da fiordalisi recisi e cosparsi sul letto di foglie, tutte le voglie ancora da soddisfare, e tra il dire e il fare non ci sarà più di mezzo il mare ma una tastiera di plastica, un’ostica barriera orizzontale da scavalcare con la digitazione, la prestigiazione di chi fa apparire mondi tra le mani, universi disumani e liquefatti su di uno schermo, lo scherno di una relazione con il vuoto, lo scherzo paralizzante di un moto destinato a scomparire. Resteranno solo immagini neutre, scaltre ombre di una presenza umana sempre più rarefatta e imbozzolata, un’umanità sommersa da questa colata virtuale scambiata per il reale elevato a potenza, mentre l’impotenza di venire alle mani non sarà una dimostrazione di nonviolenza acquisita, ma la fine della partita dell’uomo con il suo pianeta. Una morte discreta, che consente ancora di respirare, per continuare a digitare delle richieste di soccorso, un sos perennemente trascendente l’urgenza. Importa solo l’affluenza di contatti, i riscatti delle solitudini più incancrenite, ora improvvisamente risarcite da questo prolasso di amicizia planetaria. Digitatori di tutto il mondo unitevi, per questa immensa ora d’aria in sorvolo sul mondo. Il comunismo più profondo che si potesse immaginare, la forza di scardinare l’incontro tra due camminate. Digitate sino alla riscrittura del brocardo latino: digito, ergo sum, la summa di tutte le teologie umanitarie, dalle veterotestamentarie a quelle di recente clonazione, l’intonazione mondiale di un solo vocabolo: l’io. Io dato in pasto, offerto come obolo per lenire altre miserie, per curare le intemperie emozionali. L’io mio, la nuova imprecazione. La bestemmia di ultima generazione, quella che ha scelto una diversa rivoluzione: quella che non vuole sovvertire l’ordine costituito ma avere garantito lo spazio di una visibilità assoluta. La lingua muta, che rifiuta la carne e gli odori che si è sempre portata appresso. Basta essere connesso e l’amplesso cosmico è alla portata di tutti. L’orgia dei belli e dei brutti che incessantemente si accoppiano a distanza, l’usanza neobarbarica di scambiarsi segreti e promesse sulla teleferica virtuale. L’anno voluto loro. Proprio così, la brutale sentenza, e l’assenza dell’acca non è una dimenticanza, ma la potenza di un errore non voluto ma frutto del caso, accolto nella scrittura come un vaso prezioso che rivela l’estremità della nostra condizione. Ogni anno sarà sempre più a disposizione loro, senza più sapere i volti e le storie dei componenti questa dannata moltitudine di comunicanti.
Definitivamente soli tra tanti.
Infiniti astanti distanti.

Paolo Vachino

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